Il tema dell’esilio di Dante si svela pienamente e assume ulteriori significati nel canto XVII del Paradiso, quando il poeta si rivolge al proprio avo: Cacciaguida. Le profezie post eventum dell’esilio avevano risuonato entro le cantiche precedenti, ma, in presenza di questa autorevole figura, il percorso dell’esule trova una definizione completa. Notiamo come il tema dell’esilio ingiusto si distenda nel canto centrale del Paradiso, seguendo una specifica trama narrativa. Dante si sente pronto a sorreggere i colpi della cattiva sorte (“ben tetragono ai colpi di ventura”), vuole conoscere in anticipo il proprio destino (“che saetta previsa vien più lenta”), intende proclamare la propria innocenza e la corruzione del pontificato di Bonifacio VIII (“là dove Cristo tutto dì si merca”). Cacciaguida e Cangrande della Scala compongono una linea di continuità storica entro il partito filo imperiale nella penisola; questo trova coevi riferimenti nella figura di Arrigo VII imperatore, invocato a liberare l’Italia dal potere teocratico. In realtà, il continuum politico ed emotivo è dato da eventi avversi. Come Dante è scomunicato da Bonifacio VIII, Cangrande lo sarà da Giovanni XXII, Arrigo da Clemente V; gli ultimi due sono papi eletti durante la “cattività” francese.
L’indicazione che Cacciaguida fornisce al proprio discendente è senza scampo. Dapprima Dante dovrà liberarsi dalla “compagnia malvagia e scempia” degli altri fuoriusciti; poi sperimenterà “sì come sa di sale/ lo pane altrui e com’è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. La durezza dell’esilio è solo in apparenza mitigata dalla cortesia della famiglia veronese (i Della Scala), che offrirà il “primo … rifugio e il primo ostello”. La celebrazione del soccorso scaligero appare insistita e gravata da un’enfasi tanto accentuata da divenire sospetta, tesa a idealizzare il bene ricevuto. Ansia del poeta è quella di affidare il poema alla protezione di Cangrande, capo del ghibellinismo italiano. Per probabili contrasti sorti entro la corte veronese, l’Alighieri accetterà la protezione polentana, stabilendosi fin dal 1318 in Ravenna, sotto le ali di un’aquila forse meno nobile di quella scaligera, certamente più affettuosa. L’epistola a Cangrande (XIII) in cui Dante dedicava al signore veronese il Paradiso, pare essere, secondo recenti studi, uno scritto apocrifo.
Grazie alla centralità del tema, nel medio percorso del Paradiso, l’esilio risulta evento determinante per l’ispirazione dell’intero poema. Non solo. La ricerca di giustizia, l’affermazione di principi etici, le virtù morali di Dante vengono nobilitati attraverso la narrazione delle origini familiari, attraverso la nobiltà degli intenti che hanno determinato il viaggio ultramondano. L’esilio è trauma e insieme strumento di recupero psicologico ed emotivo. Il trauma è una ferita, un grave evento che perturba l’Io con afflusso di stimoli difficili da fronteggiare. Il trauma scompagina l’assetto e l’equilibrio della persona (“Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente e questo è quello strale/ che l’arco dell’esilio pria saetta”). La riparazione del trauma è data dalla rielaborazione degli eventi, dalla riconquista di un nuovo stato di omeostasi psichica; non deriva mai dalla rimozione dell’evento perturbante. Se il trauma non viene rielaborato, si produce uno stato psichico alterato con tendenza alla ripetizione dolorosa degli effetti patogeni entro il mondo interno e nelle relazioni del soggetto. La riparazione della ferita traumatica richiede un percorso trasformativo attraverso il quale l’evento disorganizzatore finisce per essere amalgamato nell’esperienza biografica del soggetto. In questo modo, il trauma diviene parte del percorso di vita, è fenomeno reso pensabile e meglio affrontabile nei suoi esiti. L’intero percorso della Commedia può essere letto nell’ottica dell’impatto portato dall’esilio. L’Inferno configura lo smarrimento eterno dell’anima esiliata in una lontananza definitiva da Dio. Il Purgatorio descrive i processi della riparazione attraverso l’ascesi spirituale e la purificazione dal dolore (inteso come effetto della colpa). Il Paradiso consente la contemplazione divina: traguardo di salvezza per l’anima, stato di appagamento individuale e condiviso. La soluzione del percorso esistenziale di Dante coincide col primato della vita contemplativa, stato che si contrappone alla vita attiva: condizione incarnata dall’impegno politico assunto dall’Alighieri, fonte di drammatiche conseguenze.
Dante, appartenente alla fazione dei Bianchi, viene eletto tra i sei priori (13 giugno 1300). Il suo operato si caratterizza per l’opposizione alla pienezza dei poteri pontifici sulle controversie politiche. Intanto Carlo di Valois viene nominato dal papa capitano generale degli Stati della Chiesa e “paciaro” in Firenze. Il condottiero mira soprattutto a stringere un’alleanza coi Neri per scacciare dalla città i Bianchi. I giochi di alleanze e le violenze scoppiate a Firenze, indurranno il podestà eugubino, Cante Gabrielli, ad assumere provvedimenti consoni col desiderio papale di estinguere gli oppositori. Dante, inviato in ambasceria a Roma presso Bonifacio VIII, mentre percorre la via del ritorno, viene colpito (27 gennaio 1302) dalla condanna emessa dal podestà. Accusato di baratteria, è condannato a una multa di 5000 fiorini, al bando per due anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il 10 marzo, non essendosi presentato a pagare la penale e a giustificarsi, è condannato al rogo e alla confisca dei beni. Sarà poi escluso dalle amnistie del settembre 1311 e da quella dell’autunno 1315. L’epopea di Dante, “exul immeritus”, ha avuto inizio. I tentativi condotti dai fuoriusciti per rientrare a Firenze falliscono due volte: a Gargonza in Val di Chiana (febbraio 1302) e in Mugello presso la pieve di San Godenzo (8 giugno 1302). L’appoggio forlivese infonde nuove speranze alla parte bianca. Nel 1303 Scarpetta Ordelaffi, ghibellino, diviene podestà di Forlì, mentre Cecco, suo fratello, è capitano del popolo. Risalirebbe al 1303 l’arrivo di Dante nella città romagnola. Gli Ordelaffi hanno saputo emergere, acquisendo supremazia tra le fazioni locali. Scarpetta Ordelaffi è il capo dei ghibellini romagnoli e toscani. A lui viene affidato il comando dell’esercito che combatterà i Neri. Si stringono alleanze col veronese Bartolomeo della Scala e con gli Ubaldini, potente famiglia del Mugello. Un altro forlivese comanda le truppe avversarie; è Fulcieri de’ Calboli. Discendente dalla famiglia guelfa che lungamente contese agli Ordelaffi il potere, Fulcieri è definito nelle cronache uomo feroce e crudele. Dopo avere ricoperto varie funzioni, viene eletto podestà di Firenze (1303), ove la carica gli sarà rinnovata al termine del mandato semestrale. Scarpetta comanda 6000 fanti e 800 cavalieri; lo scontro avviene (marzo 1303) in Mugello, a Castel Policiano. I Bianchi conquistano la fortezza, ma vengono sorpresi dagli avversari cui danno man forte i Lucchesi. I ghibellini bolognesi, che non si aspettavano di dover combattere contro un così ampio schieramento, abbandonano il campo. L’esito della battaglia è favorevole ai Neri. Diciassette sono i prigionieri in mano agli avversari; verranno decapitati. Tra i fuoriusciti, i rapporti si fanno difficili. C’è chi accusa Scarpetta Ordelaffi di scarse qualità strategiche; altri rimproverano i fiorentini di aver male calcolato l’intervento dei Neri. Il 20 luglio 1304 i guelfi Bianchi tentano nuovamente di rientrare in città con uno scontro armato. La battaglia della Lastra avrà esito fallimentare e sanguinoso per i Bianchi. Intanto l’Alighieri si è allontanato dal gruppo dei fuoriusciti. Forti sono i sospetti e le invettive che seguono il poeta (“che tutta ingrata, tutta matta ed empia/ si farà contra te”); questi proseguirà solitario il proprio cammino (“sì che a te fia bello/ averti fatta parte per te stesso”), senza dover farsi carico della bestialità e della vergogna che grava sui compagni di sventura (“ella, non tu, n’avrà rossa la tempia”).
Bologna, Verona, Padova, la Marca di Treviso, la Lunigiana dei Malaspina, il Casentino dei conti Guidi: queste le possibili tappe dell’esilio del poeta, che pare fosse per qualche tempo anche a Parigi e a Lucca. Singolare come nel canto XVII del Paradiso ogni altra sede scompaia per lasciare il posto alla sola dinastia veronese, segno verosimile di una idealizzazione bisognosa di individuare una sorta di luogo perfetto ove collocare i propri desideri di riscatto. Il soggiorno presso Bartolomeo della Scala avviene fra il 1303 e il 1304. A Verona il poeta tornerà solo dopo la morte di Alboino (successore di Bartolomeo) e la salita al potere di Cangrande, lasciando la Forlì degli Ordelaffi ove era tornato intorno al 1310, al tempo della discesa in Italia di Arrigo VII. Ha inizio nel 1312 il secondo soggiorno veronese dell’Alighieri. Dal 1318 sarà a Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Qui morirà nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321, per una affezione malarica contratta attraversando a piedi la zona paludosa di Comacchio. Dante tornava da una missione diplomatica presso il doge Giovanni Soranzo a Venezia; qui aveva cercato di comporre i contrasti fra la Serenissima e la signoria polentana per il controllo del commercio del sale in Adriatico. Giovò al successo della missione di Dante la sua antica consuetudine con gli Ordelaffi, alleati del doge contro Ravenna.
Entro il testo della Commedia, non mancano i riferimenti all’esilio, sorta di marchio personale che il poeta pone come sigillo alla propria opera. Questo doloroso stato anticipa la reale espiazione purgatoriale cui Dante sa di dover sottoporsi, dopo la morte, per breve tempo nella cornice degli invidiosi, più a lungo in quella dei superbi. Nel X canto dell’Inferno avviene l’incontro con Farinata degli Uberti. E’ questi un personaggio pubblico della Firenze duecentesca, condannato alla pena infernale tra coloro, gli eretici epicurei, “che l’anima col corpo morta fanno”. Accolto da un’arca sepolcrale infuocata, sta ritto “dalla cintola in su”, con atteggiamento sdegnoso “come avesse l’Inferno in gran dispitto”. Massimo esponente ghibellino in città, ebbe alterne fortune nella lotta contro i guelfi. Il dialogo fra Dante e Farinata è carico di tensione e insieme accompagnato da un forte senso di rispetto. Avversari furono gli avi di Dante e Farinata. Con brevi cenni, il vecchio fiorentino dà per primo la notizia al poeta dell’esilio imminente: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia della donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Non passeranno cinquanta pleniluni (due anni e quattro mesi). La luna e Proserpina sono configurazioni della medesima divinità. L’arte che pesa è il ritorno a Firenze per chi ne è bandito. “Noi veggiam, come quei che ha mala luce,/ le cose, disse, che ne son lontano;/ cotanto ancor ne splende il sommo Duce./ Quando s’appressano o son, tutto è vano/ nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,/ nulla sapem di vostro stato umano./ Però comprender puoi che tutta morta/ fia nostra conoscenza da quel punto/ che del futuro fia chiusa la porta”. E’ questa la condizione dell’antivedere infernale: uno sguardo chiaro sugli eventi lontani, una visione indistinta o nulla del presente. Il canto si chiude con l’accorato confronto sulla condizione politica fiorentina. Se Dante riabilita il valore di Farinata, condannato post mortem dai fiorentini per eresia fino alla damnatio memoriae, il presagio dell’esilio incombe, tanto che il poeta chiede lumi a Virgilio. “Quando sarai dinanzi al dolce raggio/ di quella il cui bell’occhio tutto vede,/ da lei saprai di tua vita il viaggio”. Solo dopo l’incontro con Beatrice, il vero potrà essere svelato alla dolente umanità del poeta.
Il secondo presagio dell’esilio è contenuto nel canto XV. Siamo entro il terzo girone, ove i violenti contro natura sono tormentati dalla pioggia di fuoco. Tra i sodomiti è Brunetto Latini, segretario del comune di Firenze, ambasciatore e uomo di lettere, consigliere di Dante nel campo degli studi. Sorpreso è l’Alighieri di trovare entro il girone infernale “la cara e buona immagine paterna”. L’occasione è propizia per un dialogo relativo alla condizione politica della città, che trapassa nel vaticinio di future traversie per il poeta: “Ma quello ingrato popolo maligno/ che discese di Fiesole ab antico,/ e tiene ancor del monte e del macigno,/ ti si farà, per tuo ben far, nimico,/ ed è ragion; ché tra li lazzi sorbi/ si disconvien fruttare al dolce fico”. Brunetto trasmette al poeta un confortante senso di protezione dinanzi alla piena consapevolezza della sua innocenza. La risposta di Dante è fondata su speranza e rassegnazione, diretta a considerare gli aspetti trasformativi e salvifici manifesti nella figura di Beatrice: “Ciò che narrate di mio corso scrivo/ e serbolo a chiosar con altro testo/ a donna che saprà se a lei arrivo”. Dolce è il congedo del vecchio scrittore che affida a Dante la propria memoria tramandata dall’opera più cara: “Gente vien con la quale esser non deggio:/ siati raccomandato il mio Tesoro,/ nel quale io vivo ancora; e più non chieggio”.
L’incontro con Vanni Fucci dà conto del clima violento che vige entro l’Inferno, della disumanità pronta a dar segno di sé. Uomo sacrilego di nobile famiglia pistoiese, soprannominato “bestia”, è feroce protagonista entro le lotte cittadine del secolo XIII. Colpisce la superbia con cui il dannato si presenta, quasi orgoglioso del male commesso (“Vita bestial mi piacque e non umana,/ sì come a mul ch’io fui; son Vanni Fucci/ bestia, e Pistoia mi fu degna tana”). Implicato in diversi fatti di sangue derivati dai contrasti tra famiglie potenti, viene esiliato, poi fa ritorno in patria. Il poeta lo incontra nella bolgia dei ladri, qui condannato per il furto sacrilego compiuto nella chiesa di San Iacopo a Pistoia: “in giù son messo tanto, perch’io fui/ ladro alla sacrestia de’ belli arredi;/ e falsamente già fu apposto altrui”. Sono morsi da serpenti i ladri; poi, una volta inceneriti, i peccatori riprendono forma umana. Il ciclo continuo di distruzione e ricomposizione della forma non pare atterrire Vanni Fucci, pronto a compiere un gesto blasfemo contro Dio. Anche nel dialogo con Dante il tono si rende aspro, finché non prende forma un’amara profezia. Dopo aver descritto la propria colpa, il dannato non vuole che il poeta goda della disgrazia di un avversario. Dice, dunque, Vanni Fucci: così come Pistoia sarà spopolata dei guelfi Neri, lo stesso accadrà a Firenze al riguardo dei Bianchi come esito di un sanguinoso combattimento. “Tragge Marte vapor di val di Magra/ ch’è di torbidi nuvoli involuto;/ e con tempesta impetuosa ed agra/ sopra Campo Picen fia combattuto;/ ond’ei repente spezzerà la nebbia,/ sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto./ E detto l’ho perché doler ti debbia”. Il tema dell’esilio viene imposto al pensiero di Dante come evento senza scampo, sorta di trauma anticipatorio comunicato coi toni del disprezzo e della vendetta. Segue nel canto successivo (XXV) l’invettiva del poeta contro Pistoia, patria del “mal seme” e di uomini come Vanni Fucci, ineguagliabile nella protervia contro il creatore. La violenza della profezia suscita in Dante sentimenti di sdegno morale espressi attraverso uno stato d’animo fremente. Il poeta non si abbandona alla disperazione di fronte al presagio di battaglie, di morti, di lunghi patimenti, segno di integrità morale molto profonda.
Secondo gli esegeti danteschi, il “vapor di val di Magra” è da identificarsi col marchese Moroello Malaspina, ghibellino, del quale Dante fu ospite intorno al 1306. La famiglia Malaspina riceve onori poetici entro il canto VIII del Purgatorio. Siamo nella valle dei prìncipi che furono negligenti per troppo amore alla vita terrena. Il clima del canto è intonato al desiderio e alla nostalgia. La pacata atmosfera purgatoriale appare preludio di mature consolazioni: “Era già l’ora che volge il disìo/ ai naviganti e intenerisce il core/ lo dì che han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore/ punge se ode squilla di lontano/ che pare il giorno pianger che si more”. La nostalgia è tema prevalente nel Purgatorio; si esprime come sentimento che compare sovente nella riparazione post-traumatica. L’Io può dare forma ai ricordi e rimpiangere il tempo felice che si era costituito prima degli eventi avversi. E’ questo l’avvio di una efficace azione elaborativa di fronte al perturbamento dell’angoscia destabilizzante. Nostalgia del poeta è quella di un ordine morale e politico che consenta equilibri fra primato temporale e spirituale; coincide col desiderio di tempi lontani retti dal buon governo cittadino. Il poeta sosta entro la piccola valle. Siamo nell’Antipurgatorio. L’incontro con Corrado Malaspina (ghibellino morto intorno al 1294) è spazio della ricomposizione storica: “Chiamato fui Currado Malaspina:/ non son l’antico, ma di lui discesi./ a’ miei portai l’amor che qui raffina”. La stirpe dei Malaspina è descritta dal poeta in termini di indubitabile benignità: “La fama che la vostra casa onora,/ grida i signori e grida la contrada,/ sì che ne sa chi non vi fu ancora”. La notizia post eventum del proprio soggiorno in Lunigiana consente al poeta di comporre un ritratto idealizzato dei marchesi, gente che “sola va dritta e il mal cammin dispregia”. Questo è l’anticipo di un presagio appena accennato, ma denso di significati per il futuro dell’esule. Non passeranno sette anni, dice Corrado, e le circostanze porteranno il poeta a toccare con mano i caratteri dell’ospitalità rivolta a un esule: “che codesta cortese opinione/ ti fia chiavata in mezzo della testa/ con maggior chiovi che d’altrui sermone”. La saldezza dei Malaspina e il loro appoggio a Dante non saranno mutati da “corso di giudizio”, da quel destino che solo a Dio può essere noto. Dante resterà per qualche tempo in Val di Magra, fungendo da procuratore ai marchesi Moroello, Francesco e Corradino Malaspina fino a concludere la pace con Antonio, vescovo di Luni. La profezia espressa da Corrado non suscita effetti perturbanti sul poeta, intento com’è a compiere la salita purificatrice lungo le ripe scoscese del Purgatorio.
Conseguenza della purificazione è l’affermarsi del primato spirituale nella vita. Questo tema sta al fondamento della poetica che permea il Purgatorio. L’attitudine dell’anima intenta alla ricerca della salvezza è generata dalla capacità di riflettere sulle proprie mancanze verso il bene. Allo stesso tempo, il destino ultimo dell’uomo è quello di una elevazione capace di avvicinarlo alla giustizia divina: “O superbi cristian, miseri lassi,/ che, della vista della mente infermi,/ fidanza avete ne’ ritrosi passi;/ non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l’angelica farfalla,/ che vola alla giustizia senza schermi?” Questa domanda risuona nel canto X del Purgatorio e richiama altre considerazioni sull’effimera consistenza della gloria mondana. Questo viene affermato nel canto XI, ambientato sulla prima cornice del monte, ove si puniscono i superbi, costretti a camminare schiacciati da massi più o meno gravi. Il successo di Oderisi da Gubbio, miniatore, è poca cosa dinanzi all’eternità: “O vanagloria dell’umane posse,/ com’ poco verde in su la cima dura,/ se non è giunto dall’etati grosse!/ Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo ed ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è oscura./ Così ha tolto l’uno all’altro Guido/ la fama della lingua; e forse è nato/ chi l’uno e l’altro caccerà di nido./ Non è il mondan romore altro che un fiato/ di vento ch’or vien quinci ed or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato”. Tra le anime che scontano il peccato di superbia è quella di Provenzan Salvani, ghibellino senese, la cui fama risuonò per tutta la Toscana, mentre ora si parla appena di lui nella città natale. Egli poté ottenere la salvezza dell’anima e scontare la superbia in Purgatorio solo perché umilmente volle elemosinare 10.000 fiorini nel Campo senese per riscattare dalle carceri angioine un suo amico ivi rinchiuso con la prospettiva della condanna a morte: “e lì, per trar l’amico suo di pena,/ che sostenne nella prigion di Carlo,/ si condusse a tremar per ogni vena./ Più non dirò, e scuro so che parlo;/ ma poco tempo andrà che i tuoi vicini/ faranno sì che tu possa chiosarlo”. L’oscuro vaticinio chiude il canto XI del Purgatorio. A esso Dante non oppone repliche. Intento del poeta è trovare chiarezza sul proprio desino solo dopo l’incontro con Beatrice. Il senso che possiamo ricavare dalla profezia è quello di uno stato drammatico che sta per comparire nella vita dell’Alighieri, presto costretto a mendicare aiuto e a chiedere soccorso, tremando per la vergogna e per il bisogno. A Dante è assegnata la pena di chiedere umilmente deponendo la superbia che lo caratterizza: espiazione da realizzare in vita, purgatorio incarnato sulla terra.
“Se mai continga che il poema sacro,/ al quale ha posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per più anni macro,/ vinca la crudeltà che fuor mi serra/ del bello ovile, ov’io dormii agnello,/ nimico ai lupi che gli danno guerra;/ con altra voce ormai, con altro vello/ ritornerò poeta; ed in sul fonte/ del mio battesmo prenderò il cappello”. Dopo l’incontro con Cacciaguida, che esprime l’ultimo e più esauriente presagio dell’esilio, il poeta può affidare il testo della Commedia all’eternità e confidare nella propria opera per ottenere il riconoscimento di una indubitabile innocenza. “Lume non è, se non vien dal Sereno/ che non si turba mai; anzi è tenèbra,/ od ombra della carne o suo veleno./ Assai t’è mo aperta la latebra/ che t’ascondeva la giustizia viva […] O terreni animali, o menti grosse!/ La prima Volontà, ch’è per sé buona,/ da sé, ch’è Sommo Ben, mai non si mosse./ Cotanto è giusto quanto a lei consona;/ nullo creato bene a sé la tira,/ ma essa radiando lui cagiona”. Nel rapporto fra giustizia eterna e volontà dell’uomo si crea una consonanza capace di illuminare la mente di chi si lascia attraversare dalle fonti del bene superiore. Il fondamento etico delle opere giuste assume una consistenza universale, cagionato com’è dalla serenità imperturbabile celeste, al cui specchio l’umana felicità prende forma.
Se Firenze appare la meta agognata del concreto ritorno, il rimedio più alto per l’esule è dato dalla salita all’Empireo, dal desiderio della contemplazione di Dio. “Iura Monarchiae Superos Flegetonta lacus …”: l’epitaffio dello Scanabecchi impresso a Ravenna sul sepolcro del poeta è estrema constatazione della fama e consolazione per la nostalgia. “Sed quia pars cessit melioribus castris/ Actoremque suum petit felicior astris” : l’anima si è ritirata in sedi migliori e fra le stelle ha raggiunto il suo creatore. Il cielo è, dunque, il luogo del ritorno, l’autentica patria di Dante, lontano per sempre da Firenze, la madre dal piccolo amore: “Hic claudor Dantes … quem genuit parvi Florentia mater amoris”.
Ogni uomo aspira a una patria. L’esule avverte ancor più forte il bisogno di riconoscersi entro luoghi in cui collocare tanto i riferimenti quotidiani quanto un continuum formato da affetti, consuetudini, pensieri. Ancora più alto per Dante è il desiderio di vedersi accolto da una patria idealizzata, la giustizia divina, condizione superiore a quella di ogni altro essere umano.
“O Luce Eterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te, intelletta
ed intendente te, ami ed arridi!
Quella circulazion che si concetta
pareva in te come lume riflesso,
dagli occhi miei alquanto circospetta,
dentro da sé del suo colore stesso
mi parve pinta della nostra effige;
per che il mio viso in lui tutto era messo.
Qual è ‘l geométra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio e non ritrova,
pensando, quel principio ond’egli indige,
tal era io a quella vista nuova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne,
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
All’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disiro e il velle,
sì come ruota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che muove il sole e l’altre stelle.”
Sant’Agostino di Predappio, 9 luglio 2021