“Stai zitta” di Michela Murgia è un testo apparentemente leggero e pur con uno stile semplice affronta tematiche complesse e delicate. La lettura di questo testo ci spinge a riflettere su temi che hanno a che fare con la parità di genere, la forza dei pregiudizi e l’importanza dell’uso del linguaggio all’interno di una società ancora troppo condizionata da una logica patriarcale nella quale la donna è discriminata e sottorappresentata in vari contesti. Secondo M.Murgia, un certolessico veicola messaggi impliciti e può nascondere in modo velato e subdolo atteggiamenti sessisti e discriminatori. Tutto questo, per dirlo con le sue parole, “accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta (…) Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma (…) quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di scopare di più, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta.”
Nel testo si riflette sugli squilibri di potere che si creano tra uomo e donna all’interno di certi contesti professionali nei quali accade non di rado che alla donna professionista ci si rivolga con il tu confidenziale, oppure se ne ometta il titolo professionale (signorina e non dottoressa), la si chiami per nome o con diminutivi infantilizzanti. Queste pratiche che l’autrice ben descrive nel suo lavoro, sottendono subdole svalutazioni nei confronti della donna e possono lederne dignità e autorevolezza.
Murgia prende in esame inoltre la narrazione sociale della donna come “creatura ontologicamente materna”, creatura “relazionale”, dalla quale ci si attende sempre e comunque un atteggiamento di indulgenza e attitudine alla cura (“ossessione della mammizzazione”). Allo stesso tempo però, la donna dovrebbe essere “cazzuta”, possedere gli attributi maschili per poter ‘realmente’ entrare in una dinamica di potere (la donna con gli attributi, la donna uomo, la “uoma” scrive ironicamente Murgia).
Secondo l’autrice, è necessario fare molta attenzione a questo tipo di linguaggiocon il quale, inconsapevolmente tutti e tutte, contribuiamo a rafforzare una determinata visione della realtà.
“Le parole sono importanti” e questo lo sa bene chi come noi lavora nella stanza di analisi, spazio-tempo nel quale la parola assume un profondo valore di cura. Sappiamo infatti che una parola può toccare come un abbraccio o una carezza se offerta con tatto e delicatezza, o al contrario può colpire forte, scuotere, ferire. A volte però le cose non sono così semplici, ci sono infatti parole o atteggiamenti che si connotano di una forte ambiguità, sono schiaffi mascherati da carezze, sono svalutazioni mascherate da lusinghe (“era solo un complimento!” ci sentiamo dire quando ad esempio riceviamo commenti non richiesti sul nostro corpo. Ma chi decide che sia un complimento e non sia una molestia? “Chi lo riceve?” suggerisce Murgia.) Ad ogni modo, che siano più o meno palesi, queste modalità - che vanno dalla più subdola tecnica del “mansplaing” (“ti spiego io”, “ti insegno io”) fino alla più esplicita pratica dello “stai zitta”- rappresentano tentativi di mettere a tacere la donna e di ridurla al silenzio.
Penso che rompere il silenzio significhi per la donna dare voce al proprio Sé, attribuire valore ai propri pensieri, legittimarsi ad affermare se stessa e le proprie idee. Non è raro incontrare nella stanza di analisi ragazze o donne che non si sentono legittimate a dare voce ai propri pensieri poiché da sempre squalificati o inascoltati; si descrivono come “soprammobili carini”, “alghe senza forma che si adattano alla roccia”, “banderuole al vento”, “belle statuine”. Tutte immagini che rimandano ad aspetti di compiacenza, svalutazione di sé e annientamento della propria soggettività. Spesso realizzano con sorpresa, proprio durante il lavoro analitico, che questa libera espressione di sé è consentita e prendono atto di quanto i propri desideri e vissuti abbiano valore e dignità. Questa affermazione di sé richiede senz’altro una certa quota di aggressività (che non è distruttività,ma nella sua derivazione latina ad-gredior può essere tradotta come “andare verso”, in senso positivo come spinta a raggiungere un obiettivo, spinta ad affermarsi). Un’aggressività che spesso è considerata scomoda, soprattutto se a manifestarla è una donna che secondo i dettami del sistema patriarcale, dovrebbe corrispondere all’immaginario della “brava bambina”: mite, composta.. silenziosa”.
Ma perché la donna spaventa tanto da doverla svalutare, toglierle forza, autonomia e parola? O al contrario è necessario renderla innocua, santificandola e rappresentandola come una Madonna, madre devota senza macchia? Come analiste non possiamo evitare di porci questa domanda che riguarda l’origine profonda di quello che può essere un atteggiamento fobico e maschilista (quando non francamente disprezzante e violento) di certi uomini verso la donna.
La questione è complessa, numerosi sono i fattori socio-culturali, relazionali eintrapsichici che possono intervenire in questo senso. Tra le tante possibili letturesi può ipotizzare che in certi casi la partner non sia vista dall’uomo come soggetto separato, portatrice di una sua individualità, ma un’estensione di sé, con la quale ricreare l’illusione di un eden fusionale. Ma non appena questadimensione fusionale entra in crisi (perché la donna sceglie di separarsi o in qualche modo afferma la propria alterità) potrebbe scatenarsi il sopruso: attraverso l’esercizio della forza, l’uomo tenterebbe di affermare la propria superiorità rispetto alla donna dalla quale è invece disperatamente dipendente. In questi casi non esiste riconoscimento dell’Altro, né considerazione per la sua sorte, ma prevale un atteggiamento onnipotente teso a negare i vissuti di dipendenza e terrore abbandonico.
In un’ottica preventiva è indispensabile ripartire dalla formazione, educando i giovani alla tolleranza, al rispetto del consenso, al riconoscimento dei segnali sottesi alla violenza e all’ascolto delle proprie emozioni. Un’educazione emotiva, relazionale, affettiva e sessuale.
In accordo con Murgia, crediamo sia una responsabilità condivisa quella di lottare ogni giorno contro la violenza di genere, contro i focolai del maschilismo e del sessismo di cui è ancora intrisa la nostra società. Possiamo iniziare dalla nostra quotidianità, evitando di usare un certo lessico a favore di un linguaggio più inclusivo, o indignandoci di fronte a una violenza ricevuta, che sia più o meno esplicita. Per questo è importante restituire dignità al linguaggio affinché non si alimentino stereotipi e pregiudizi. Un bambino che piange non è una femminuccia, è un essere umano che esprime una sofferenza e ha bisogno di sentire che questa viene accolta e legittimata piuttosto che giudicata, sminuita o ridicolizzata. Una donna che protesta non è una isterica, ma una persona che dà voce ai suoi bisogni e rivendica i suoi diritti. Una ragazza che subisce un abuso non è mai colpevole e non se l’è cercata. Un uomo che alza le mani non è sexy ma un violento.
Si tratterà di promuovere un lavoro mirato di educazione nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle famiglie per poter operare una piccola e grande rivoluzione che si realizzi proprio a partire dell’uso consapevole dalla parola. Questo compito pertiene a noi tutte/i ogni giorno, lottare per costruire una società orientata in senso democratico, caratterizzata dalla tolleranza e rispettosa delle differenze, nella quale non sia necessario “tirare fuori gli attributi” ma sia lecito e sufficiente tirare fuori la voce.